Questo intervento di Francesco Ranieri Martinotti, presidente Anac, è stato pubblicato sull'ultimo numero di 8 1/2
Il modello della riforma
Nelle prossime settimane la 7° Commissione del Senato, presieduta dal senatore Marcucci dovrà fare la sintesi tra i diversi disegni di legge di disciplina del cinema e dell'audiovisivo presentati al Senato. In particolare tra il DDL n. 2287 a firma del Ministro Franceschini e il n. 1835 i cui primi firmatari sono i senatori Di Giorgi e Zavoli. Non sarà un lavoro facile. Sono infatti molto diversi l'uno dall'altro. Il primo azzera la distinzione tra cinema e audiovisivo; afferma l'assoluta centralità dell' impresa, sia essa cinematografica o televisiva; cancella la "discriminante culturale" per l'assegnazione dei sostegni da parte del Ministero dei beni e delle attività culturali, elemento che invece dovrebbe essere la ragione essenziale per la competenza di quest'ultimo sulla materia. L’ altro DDL, rispettando invece le diverse specificità del cinema e dell'audiovisivo sostiene la crescita di entrambi. Con una visione d'insieme più allargata, esso unisce e ad armonizza le diverse tessere che compongono il complesso mosaico del settore riconoscendo una complementarietà a tutte le categorie che lo rappresentano: gli sceneggiatori, i registi, i grandi e i piccoli produttori, i distributori nazionali e internazionali, gli esercenti, le scuole di cinema, le cineteche, gli spettatori, le industrie tecniche… Si contrappongono di fatto due impostazioni diverse che non sarà semplice conciliare: una ispirata al modello inglese, l'altra a quello francese. Fino a qualche tempo fa in molti facevano professione di fede per la legge francese, oggi è rimasta solo l'Anac a crederci. Con coerenza, la storica associazione fondata nel 1952 dagli autori che hanno fatto grande il cinema italiano, continua a pensare che se in Europa esiste una legge che funziona con efficacia da 70 anni, che ha consentito al cinema del suo paese di diventare la seconda potenza mondiale dell'audiovisivo e che produce un giro d'affari di 16M l’anno, quella è la francese. Ma a chi sostiene che non è facile adattare il modello francese alle caratteristiche del nostro paese bisogna far notare che è sicuramente più complicato farlo con la normativa all’“anglosassone”(anche se in Gran Bretagna non c’è traccia delle norme che si vorrebbero applicare in Italia). Essa parte dal principio base che la produzione fa da volano a tutto il settore e l'impresa, meglio se grande, ne è l'asse portante. Fin qui niente di nuovo rispetto a quello che accade in Italia da oltre 10 anni. Si pretende, invece, che l'elemento qualificante sia il modo in cui sarebbero assegnate le risorse pubbliche: automaticamente. Destinatari: i produttori, perché, come ha detto il presidente dell’Anica durante le recenti audizioni al Senato, sono loro gli unici che sanno fare il prodotto e conoscono il mercato. Non poteva essere altro che questa la proposta emersa dal tavolo che l'ha generata e al quale sedevano il Mibact, il Mise, i produttori e le TV. Ma è davvero applicabile questo modello al nostro paese che non ha una cultura della libera concorrenza e dove appena si parla di antititrust i gruppi che contemporaneamente detengono le emittenti, la distribuzione e controllano da soli quasi la totalità della produzione, da Rai a Mediaset, si sollevano? Si possono affidare tutte le scelte al quello stesso mercato che oggi produce solo commedie uguali a se stesse? La forte spinta all’internazionalizzazione ha senso se prima non riconquistiamo il mercato interno? I nostri film, pensati, scritti e interpretati in italiano, si prestano all’esportazione allo stesso modo di quelli in lingua inglese? Oppure dobbiamo girarli in inglese e rinunciare definitivamente alla nostra identità?
Come ha osservato Marco Follini (presidente dell'APT), intervenendo a novembre al convegno fiorentino Cinema: Direzione Centro, per tradizione, cultura e specificità linguistica la Francia e il suo impianto normativo vanno considerati come i più affini a noi. Follini non ha torto. I francesi hanno scelto di difendere l’identità e di far avanzare insieme la creatività, la formazione, la distribuzione, l'esercizio, la memoria del loro cinema e non soltanto la produzione. L’obbiettivo è quello di sostenere l’intero settore e le sue tre grandi famiglie: il cinema, l’audiovisivo e il multimediale. Ciascuna di esse ha risorse definite e separate, in modo che nessuno possa farla da padrone e assorbire le risorse dell'altro. E’ stato individuato un giusto plafond annuo non inferiore a 950 milioni di euro (750 dal prelievo di scopo, il resto dal tax credit). Il sostegno all’audiovisivo è indirizzato ai prodotti innovativi e non è previsto per quelli finanziati dai broadcast, questo per valorizzare il ricambio e la diversità. Inoltre, in Francia, esiste una cabina di regia, il ?Centre national du cinéma (CNC) che attua le politiche dei governi, ma non subisce l’influenza del potere perché è guidato da esperti. E in pochi sanno che, a differenza della Direzione generale cinema, il CNC non costa nulla al cittadino: la sua gestione è pagata grazie al prelievo sui fatturati delle imprese che sfruttano il cinema e l'audiovisivo (prelievo di scopo). Infine la suddivisione dei sostegni tra selettivi e automatici è fissata al 50% per garantire con i primi il progetto e con i secondi l'impresa. Per questi motivi e più in generale per la sua visione prospettica, l’ANAC ritiene che la legge francese ha saputo stabilire per il cinema e l’audiovisivo di quel paese, il giusto equilibrio tra la natura artistico-culturale e l'aspetto commerciale. L'Italia con questa riforma ha la grande occasione di realizzare qualcosa di analogo, che ben si attaglia alle specificità culturali del nostro paese. Ci vuole il coraggio di farlo con coerenza. Non lasciamoci sfuggire questa occasione.
Francesco Ranieri Martinotti
Presidente dell’Associazione Nazionale Autori Cinematografici